Sembra che ci sia ancora chi, a distanza di tempo, non riesca a digerire il fallimento di Dragon Age: The Veilguard. Ma tranquilli, a quanto pare non è colpa del gioco: siete voi, brutti e cattivi utenti di internet, i veri responsabili. L’ultima uscita arriva da una delle doppiatrici del gioco, Wilton Reagan, che in un’intervista a IGN si è detta “devastata” per le reazioni negative ricevute da BioWare. Secondo lei, The Veilguard era un gioco “veramente buono” e chi lo ha criticato… lo ha fatto per cattiveria.
Sì, avete capito bene: una congiura, un gomblotto ordito da utenti malvagi che, uniti in rete, avrebbero sabotato il titolo. Reagan sostiene che molte persone volevano il fallimento del gioco e perfino quello dello studio stesso, solo per il gusto di vederli cadere. A quanto pare, invece di chiedersi se il gioco fosse oggettivamente riuscito male, si preferisce scaricare la colpa su internet e sulla sua presunta malvagità.
Nel frattempo, da GamesRadar+ è emersa una testimonianza anche più interessante: quella di David Gaider, storico veterano di BioWare. Gaider ha spiegato come, negli anni scorsi, all’interno di Electronic Arts si respirasse un’aria ostile verso tutto ciò che era considerato “vecchia scuola”. I sistemi di combattimento tattici, l’approccio strategico, (i dialoghi approfonditi?). Tutto considerato troppo lento, complesso, “cumbersome”, roba da nerd rinchiusi in una grotta.
E qui arriva il punto cruciale: secondo le ricerche interne di EA, i fan degli RPG non erano un target da inseguire. Il ragionamento era semplice (e fallace): tanto quei quattro nerd della grotta un gioco di ruolo se lo comprano comunque. Perciò perché preoccuparsene? Meglio inseguire il mercato di massa, adottare meccaniche action più rapide, puntare su temi popolari e magari inserire anche qualche elemento woke per restare al passo coi tempi.
Il problema, però, è che Dragon Age: The Veilguard non è andato incontro al fallimento per via di complotti online o perché era troppo woke. È fallito perché era un gioco mediocre. Il combat system non funzionava, la storia era debole, i dialoghi piatti, i personaggi dimenticabili. E no, non è questione di gusti: un buon RPG si riconosce da certi elementi fondamentali, e qui mancavano tutti. Non si trattava di rinnovare il franchise, ma di stravolgerlo malamente, dimenticando ciò che lo aveva reso amato in passato.
Insomma, l’idea di EA era che i fan tradizionali inghiottissero qualunque cosa, pur di avere un nuovo Dragon Age. Ma questa volta, quei fan hanno detto no. E non perché fossero “cattivi”, ma perché il gioco non era all’altezza. La verità è che c’è una disconnessione sempre più evidente tra publisher come EA e le comunità di appassionati. Mentre gli sviluppatori sanno cosa funziona, i piani alti credono ancora di saperne di più, convinti che basti la parola “RPG” per vendere qualsiasi prodotto.
La lezione? Ignorare la propria fanbase non porta lontano. E se proprio vogliamo assegnare delle colpe, forse dovremmo guardare meno ai “complotti online” e più alla qualità reale di quello che viene messo sul mercato.
Nel frattempo, sì, siamo ancora brutti e cattivi. Ma almeno ci guardiamo allo specchio con la coscienza pulita.