L’IA nei videogiochi: solo fuffa?

L’IA è il futuro dei videogiochi, ci dicono i publisher con la bava alla bocca e gli azionisti attaccati alle chiappe. Tranquilli, non la useremo mica per scopi creativi ma solo per velocizzare alcuni processi e aiutare i programmatori. Parola di scout! E chi siamo noi per dubitare di colossi multimilionari che da sempre mettono al primo posto i bisogni del consumatore e la salute degli sviluppatori? Ovviamente li prendiamo in parola, e crediamo alla necessità di far costare 80 o 100€ giochi con all’interno micro-transazioni, battle pass, pubblicità e via dicendo. È dura, ma tocca accettarlo. Altrimenti, come farebbero a sfamare i propri piccoli e arrivare a fine mese? Smettiamola di essere così viziati e pretenziosi. Le aziende non lavorano mica per noi. Dunque accontentiamoci del minimo indispensabile, senza fiatare e con il sorriso sulle labbra.

Ma torniamo seri per un attimo. Se conoscete un minimo l’industria dei videogiochi, saprete bene che tanta grana, per i publisher, non sia mai troppa grana. Profitti costanti e sempre maggiori sono ciò che lo fa indurire agli azionisti. E in un’industria sempre più dominata dai soldi anziché dalla visione artistica, neanche aumenti di prezzo, DLC, micro-transazioni e battle pass sono abbastanza. Adesso c’è bisogno di ulteriori introiti a costo quasi zero e ulteriori tagli ai costi interni.

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Lo sa bene Activision Blizzard, da decenni campione di incassi e avarizia. Perché le due cose vanno a braccetto, in un’ottica paperoniana del ricco che piange miseria. Dunque sì, spendono 700 milioni di dollari per Black Ops Cold War vendendo 30 milioni di copie e triplicando la cifra spesa in guadagni anche senza contare le micro-transazioni, ma non basta. Non basta mai. Tanto da spingere i dirigenti a calcare la mano e trasformare i giochi in veri e propri negozi, dove qualsiasi meccanica viene costruita per indurre il giocatore a ulteriori esborsi economici. Al punto in cui persino molti free to play risultino meno aggressivi di roba come Black Ops 6. Ed è triste, considerando la qualità comunque alta del titolo a cui io stesso ho giocato per qualche mese usando Game Pass.

Recentemente è saltato fuori un brevetto di Activision che secondo me dovrebbe come minimo farci riflettere. Citando testuali parole: “il sistema potrebbe accoppiare un giocatore esperto con un novizio, al fine di incoraggiare il novizio a effettuare acquisti in game di oggetti usati dal giocatore esperto.” L’idea è quella di operare sul matchmaking in modo che gli utenti in possesso di più cosmetici si scontrino con chi magari non ne possiede, così da invogliarli a spendere sullo store. Inutile dirvi che un matchmaking del genere sarebbe tutto fuorché skill-based, ovvero bilanciato in base all’abilità del singolo. Ora, è vero che non abbiamo prove sull’effettiva implementazione della meccanica, ma c’è qualcos’altro che vorrei farvi notare.

Perché da oggi, ogniqualvolta verrete uccisi in COD, avrete la possibilità di mettere le skin del nemico in lista desideri. È un collegamento diretto allo shop, dove potrete acquistare l’esatta configurazione di chi vi ha fraggato con un semplice tasto. Sono cosmetici, d’accordo, ma nel caso delle armi sono inclusi anche gli accessori come calci e silenziatori, i quali richiedono spesso ore e ore di grinding per essere sbloccati e influiscono attivamente sull’efficacia dell’arma in questione. Guarda caso tale feature sembra andare di pari passo con la filosofia del brevetto. Coincidenze? Beh, vedetela come preferite ma il dato di fatto qui è che hanno trovato un modo per monetizzare la vostra morte. In un gioco dove si muore di continuo. Diabolicamente geniale.

Nell’ultimo evento crossover su Black Ops 6, sono arrivate le tartarughe ninja. Bello, direte voi. Sì, se avete voglia di sborsare 80 cucuzze, 20 a tartaruga con tanto di skin per le armi e animazioni a corredo. E ulteriori 10 se volete la skin di Splinter nel pass premium. Un affarone! In realtà non sono gli unici a specularci sopra, infatti vediamo cifre simili anche su Street Fighter 6, ma quantomeno lì si parla di personaggi giocabili e non di semplici skin. Inoltre, se osserviamo i contenuti di questi pacchetti cosmetici, ci accorgiamo di un dettaglio piuttosto significativo. Non è l’aroma di pizza ma quello di intelligenza artificiale.

Con l’entrata in vigore delle nuove politiche di Valve, che richiedono agli sviluppatori di dichiarare l’uso di IA generativa nei loro prodotti, Activision ha aggiunto una nota nelle pagine di Call of Duty su Steam, affermando che “il nostro team utilizza strumenti di IA generativa per aiutare nello sviluppo di alcuni asset di gioco”. Guarda, Activision, non l’avremmo mai detto. Basta farsi un giro sullo shop dei vari COD per accorgerci subito di come banner, schermate di caricamento e persino elementi cosmetici a pagamento siano frutto di IA generativa. Vi ricordate lo zombie con 6 dita? È in buona compagnia. E nulla rende i giocatori più felici di poter pagare per acquistare skin mediocri realizzate da un artista senza mani.

Un’altra bella trovata riguarda l’uso dell’IA per creare pubblicità di giochi inesistenti. Activision ha infatti lanciato campagne pubblicitarie sui social per titoli fittizi, tra cui Guitar Hero Mobile e Crash Bandicoot Brawl. Queste pubblicità indirizzavano gli utenti a pagine web fasulle, invitandoli a partecipare a sondaggi per valutare l’interesse verso questi potenziali giochi. Quanto passerà da qui al vederle implementate dentro i tripla A? Conoscendoli, non penso molto tempo. D’altronde si dice che persino gli artisti 2D all’interno dell’azienda vengano costretti a usare l’IA e non mi stupirei se un giorno non troppo lontano dovessero essere del tutto rimpiazzati dai robot.

Un po’ quello che è successo con i doppiatori. Sostituiti durante gli scioperi del SAG-AFTRA perché non volevano firmare gli accordi contro l’uso delle loro voci per allenare le IA. E se in Spagna prendono misure ad hoc per impedire queste pratiche, i publisher americani rispondono togliendo i doppiaggi in castigliano dai loro giochi. Semplice ed efficace. Non possono mica permettersi di pagare i doppiatori, eh. Non quando Black Ops 6 diventa il titolo più venduto nel 2024, con incassi che rompono i record storici della serie su tutte le piattaforme e milioni di abbonati su Game Pass. Finché sta roba continuerà a vendere, i publisher avranno implicitamente ragione. Non sembrano esserci limiti e regolamentazioni in grado di fermare l’avarizia di un’industria ormai svergognata. Fanno davvero il cazzo che vogliono.

Su PC, per fortuna, abbiamo almeno una sembianza di deterrente rappresentato da Valve. Ne parlavo prima riguardo ai disclaimer sull’IA, ma Steam fa anche il possibile per contrastare le pratiche predatorie e invasive delle solite mele marce con feature e linee guida pro-consumatore. Ad esempio la notifica di potenziale abbandono dello sviluppo quando i giochi in accesso anticipato non vengono aggiornati per oltre 12 mesi, oppure l’obbligo per gli editori di fornire una lista completa di tutti i contenuti inclusi nei Season Pass. È anche vietato costringere i giocatori a guardare o interagire con annunci pubblicitari per poter proseguire l’esperienza di gioco, con grande dispiacere di EA e Take Two.

Il segnale di Gaben è chiaro. Non cacate fuori dal vaso. Va bene monetizzare, ma questo non è un app store qualsiasi e ci sono delle norme di decenza. E questa presa di posizione è importantissima, anzi direi di vitale importanza. A differenza di altre piattaforme digitali e console, dove simili limitazioni non esistono, Steam continua a mantenere una posizione che favorisce i giocatori piuttosto che puntare unicamente al mero profitto. Nonostante la quasi egemonia sul mercato del gaming su PC, non ha mai adottato pratiche predatorie simili ai suoi competitor e non chiede nulla in cambio agli utenti, tipo il pizzo per giocare online. In quanti possono dire di fare lo stesso?

Ovviamente Valve non è una Onlus e il suo obiettivo primario resta fatturare. E sì, anche loro commettono errori che bisogna criticare con una mentalità aperta e non da fanboy. La differenza con altri colossi del gaming sta nella maniera in cui agiscono, nella relazione instaurata con il pubblico. Gaben sa che avrebbe vita breve se antagonizzasse l’utente palesando la volontà di spennarlo. Non a caso gode un’ottima reputazione tra i giocatori a differenza di nomi come Activision e Ubisoft. Il problema, purtroppo, sta nella penuria di aziende disposte a mettere il consumatore al primo posto.

Quando ci dicono che sviluppare i giochi costa troppo, che micro-transazioni e aumenti di prezzo siano inevitabili o che l’IA rappresenti il futuro del gaming, ci stanno soltanto gettando fumo negli occhi. I profitti sono regolarmente da record, quindi non ci sarebbe tutto questo gran bisogno di tagliare i costi usando l’IA per venderci skin da 80€. O bloccare la modifica estetica del personaggio dietro DLC alla modica cifra di 7€, coff coff Capcom. Questi geni del marketing contano sulla nostra apatia per continuare a spingere su meccaniche e brevetti sempre più sfacciati. E la qualità, almeno nei AAA occidentali, cala di anno in anno. La cosiddetta “enshittification” ha ufficialmente colpito anche i videogiochi. In quanto giocatori dobbiamo essere consapevoli di ciò che ci sta intorno e fare pressione sulle aziende per evitare che questo genere di pratiche predatorie nei giochi diventi la norma.

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