In più di un’occasione nelle ultime settimane mi è stato chiesto un parere sugli effetti delle elezioni americane sul mondo del gaming. Se davvero, ora che Donaldo Briscola (Donald Trump) è di nuovo il presidente degli Stati Unti, “woke” e DEI siano finalmente arrivati al capolinea, anche nel mondo dei videogiochi. Se scrittori e creatori di videogiochi torneranno a focalizzarsi sulla qualità anziché sulla diversità. Se riusciranno a ricordare come si separa l’ideologia dall’arte tornando un po’ alle origini del medium. Rispondere non è per niente semplice e serve prima un’analisi approfondita, che metta da parte emozioni e faziosità politica. Dunque abbassate i forconi e parliamone come persone civili, con calma e dati alla mano.
Iniziamo col dare un nome alle cose. “Woke”. Cos’è? Che vuol dire? Tutto e niente. In origine descriveva una forte consapevolezza verso i movimenti per i diritti civili degli afroamericani in USA. Oggi c’è chi lo interpreta come un sostegno alla giustizia sociale, inclusività e diritti delle minoranze, ma anche chi lo definisce un eccesso zelante e ipocrita di progressismo. A me, personalmente, il termine non piace. Sta anche iniziando a diventare un meme, alla pari del “nazista” o “fascista” che i democratici usano ormai in modo indiscriminato contro chiunque non la pensi come loro. Dunque togliamocelo dalle palle e usiamo semplicemente il termine più istituzionale di DEI, ovvero l’acronimo di Diversità, Equità e Inclusione.
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Perché le due cose sono diverse? Beh, a mio avviso non c’è niente di male nell’essere progressisti e sostenere cause di giustizia sociale. E visto che il termine “woke” viene ormai utilizzato anche erroneamente nel caso di una protagonista donna o di tematiche come il riscaldamento globale, conviene essere più specifici. Capire soprattutto che un pensiero organico o una convinzione personale non siano la stessa cosa di ciò che è ormai la DEI. La questione dei finanziamenti ESG alle aziende l’ho trattata in un articolo precedente, dove spiego che il fenomeno del cosiddetto woke nei videogiochi non è altro che un grande giro d’affari. Le aziende, soprattutto in occidente, hanno adottato pratiche DEI per migliorare la loro reputazione, ricevere fondi e soddisfare le aspettative degli azionisti. Gli investimenti ESG hanno accelerato l’adozione di tali politiche, poiché gli investitori chiedono sempre più alle aziende di dimostrare impegno verso la sostenibilità e l’inclusione.
Tradotto? Non gliene frega niente del progressismo, vogliono semplicemente i soldi. Come se ci fossero dubbi su questo. E qualora vi fossero stati, ci hanno pensato i vari Mark Zuckerberg, Tim Cook e Jeff Bezos, con il loro supporto incondizionato a Donaldo, a confermare che era tutta una grande farsa. Questo dietrofront repentino è la prova definitiva che molte iniziative DEI – tra cui lo sviluppo di videogiochi woke – erano operazioni di facciata, implementate per soddisfare le richieste esterne senza un reale cambiamento strutturale. Ben prima dell’elezione del Briscola numerose aziende nel settore dell’intrattenimento, incluse Microsoft e Google, hanno chiuso o ridimensionato i loro reparti DEI e licenziato i dipendenti assunti grazie a tali iniziative. Così, da un giorno all’altro e senza preavviso. Per quello mi viene da ridere quando sento certi CEO fingere di avere un’anima e interessarsi a questioni di natura sociale. È solo marketing fuffa, e chi ci casca è un gonzo.
Ora, mi chiederete, qual è il problema nell’introdurre e finanziare politiche di inclusione e diversità nelle aziende? In teoria, nessuno. Ma dipende da come si decida di applicarle. Perché puntare sulle quote obbligatorie a donne e minoranze non significa includere loro ma escludere il resto. E soprattutto affidarsi a un sistema anti-meritocratico. Non è un mistero che la DEI abbia portato a una netta diminuzione nelle assunzioni di uomini nel mondo dei videogiochi. Lo dimostra un recente studio di GDC, secondo il quale il numero di sviluppatori maschi caucasici sia diminuito del 10% e quello di donne o individui “non binari” sia salito dal 24 al 32% in soli due anni. E un ulteriore 24% si identifica come LGBT. Sarebbe meraviglioso se tali numeri fossero organici, ovvero frutto di semplici assunzioni meritocratiche e non di favoritismi imposti dagli standard ESG.
I provvedimenti del nuovo governo americano vanno proprio nella direzione opposta. Vietano alle società private di implementare programmi di DEI per le posizioni lavorative create attraverso contratti federali. Non solo, ma le obbliga a certificare l’assenza di questi programmi che da adesso diventano a tutti gli effetti illegali e oggetto di ispezioni. L’obiettivo è prevenire le assunzioni discriminatorie basate su etnia, sesso e orientamenti religiosi. Il che, pur non essendo un sostenitore del Briscola, mi sembra sacrosanto. Sebbene gli ordini esecutivi non siano direttamente applicabili al di fuori dell’ambito federale, diverse Big Tech hanno già espresso il loro pieno supporto. Chi in maniera diretta come Meta e Amazon, chi limitandosi ad annuire in silenzio. Alcuni insider hanno già confermato che i principali CEO della Silicon Valley sarebbero felici di non dover più fingere. E non sono gli unici.
Numerosi venture capitalist stanno iniziando ad adottare approcci più conservatori, concentrandosi su investimenti in aziende che si oppongono alle ideologie progressiste. Ad esempio, New Founding ha lanciato un fondo di venture capital per sostenere startup che rifiutano le ideologie “woke” e promuovono valori conservatori. Parallelamente, figure di spicco come Sam Altman (il CEO di OpenAI) stanno assumendo ruoli influenti nei progetti della Casa Bianca, suggerendo una possibile convergenza tra interessi governativi e tecnologici. Lo stesso dicasi dell’informazione, con lo stop ai finanziamenti pubblici a testate come Politico che ricevevano 8 milioni di dollari dall’amministrazione Biden per produrre articoli fuorvianti e di propaganda su questioni come il Gamergate. Insomma, sembra che almeno per i prossimi 4 anni vedremo molte meno aziende sventolare in modo ipocrita le bandiere arcobaleno e ficcare messaggi turbo-progressisti dentro qualsiasi prodotto.
L’industria dei videogiochi, nello specifico, ha già iniziato il suo processo di rigetto della cultura woke. Il flop colossale di Dragon Age Viola, la dipartita di Corinne Busche e (forse) la chiusura imminente di Bioware Edmonton sono dei segnali evidenti del declino di un’era. Publisher come CI Games stanno addirittura spingendo sul marketing anti-woke, ripristinando le diciture uomo e donna all’interno di Lords of the Fallen e dichiarandosi apertamente contrari ai principi della DEI. Anche questa è una facciata, sia chiaro, e vi si legge facilmente un chiaro intento lucrativo da cavalcata dell’onda favorevole. Di certo non sarà questo a spingermi all’acquisto del loro gioco. In compenso, il segnale davvero positivo è la crescita nell’interesse verso titoli cinesi e coreani, privi di ideologie politiche e infarciti di personaggi dal forte sex appeal, alla faccia delle censure neo-puritane e dell’imbruttimento made in USA.
Ma se certe tattiche funzionano, la colpa è di chi ha forzato troppo la mano in precedenza. Giochi con all’interno minoranze e tematiche progressiste sono sempre esistiti, anche in Asia. Non c’era bisogno di scurire personaggi bianchi, renderli gay e fare la morale ai conservatori. Né porre la DEI come parte essenziale del marketing nell’industria odierna. Anziché usare il token del samurai nero, la Ubisoft di turno avrebbe potuto realizzare un gioco ispirato a Django Unchained. O uno che parlasse del colonialismo in Africa nel ‘900. E invece via di ostentazione di finte virtù, salvo poi nascondere Yasuke negli ultimi poster promozionali di AC Rosso come fece Disney con John Boyega. Trattare tematiche importanti e in modo serio è troppo difficile. Bisogna invece farle diventare una bandierina, una coccarda, un meme. Poi ci si chiede perché sta roba sia venuta a noia persino ai normie, diventando uno dei punti del programma elettorale del Briscola.
E alla fine il problema non sono neanche gli elementi DEI o woke nei videogiochi ma la perdita di competenze all’interno degli studi di sviluppo. Perché se non assumi in base a criteri meritocratici ma dai la precedenza a gente non qualificata, attivisti e quote rosa riempirai il tuo studio di “pesi morti”, ovvero l’appellativo che viene dato internamente in Ubisoft agli assunti tramite DEI. E se i giochi perdono artisti, scrittori e sviluppatori talentuosi, andremo sempre più verso piattezza e mediocrità generale. A me non importa se un team sia composto al 90% da nere lesbiche disabili o da uomini bianchi incrostati. Non me ne frega nulla della vita privata di chi realizza i videogiochi. Per quanto mi riguarda possono bombarsi anche le tartarughe delle Galapagos. Vorrei soltanto che a ricoprire certi ruoli ci fossero persone competenti, e la DEI va proprio nella direzione opposta. Tutto qui.
Il punto è che se la DEI per come la conosciamo potrebbe morire, non basta un’elezione per cancellare i principi su cui si fonda. Infatti, non tutte le grandi società di investimento stanno abbandonando la causa alla stregua di Hollywood e Silicon Valley. Aziende come BlackRock e Vanguard hanno storicamente sostenuto iniziative DEI e continueranno a farlo, anche se in forma ridotta. Sì, BlackRock ha sostenuto solo il 4% delle proposte ambientali nel 2024, rispetto al 7% dell’anno precedente, citando la natura eccessivamente prescrittiva o economicamente non praticabile di alcune proposte. Ma chi ci garantisce che gli investimenti ESG non torneranno a pieno regime al prossimo cambio di governo americano? La loro posizione futura dipenderà anche da altri fattori, tra cui le dinamiche del mercato e le aspettative degli investitori.
Intanto sta già nascendo il successore della DEI ovvero BRIDGE, acronimo di Belonging, Representation, Inclusion, Diversity, and Equity. Questa iniziativa mira a creare un cambiamento culturale nelle aziende, integrando i principi della DEI in tutti gli aspetti dell’organizzazione, dalla dirigenza al marketing, fino allo sviluppo dei prodotti e al servizio clienti. L’obiettivo è identificare, smantellare e ripensare le strutture esistenti che contribuiscono alle disparità in termini di appartenenza, rappresentanza, inclusione, diversità ed equità. Che di per sé non sarebbe neanche una cattiva idea, ma all’atto pratico la BRIDGE non è altro che un rebranding della DEI. E come per gran parte dei cambiamenti imposti dalle società di investimento, anche qui è lecito adottare una posizione scettica. Perché in fondo il principio di anti-meritocrazia è il medesimo e le disparità salariali tra manager in yacht e dipendenti subissati di crunch rimarranno. La solita fuffa ideologica.
Dunque sì, le aziende smantellano i dipartimenti DEI ma ciò non significa necessariamente che vi rinunceranno del tutto e che i colossi finanziari non cercheranno di riproporre le stesse iniziative con un colore leggermente diverso. Inoltre, nel mondo dei videogiochi l’attivismo di bandiera ha già invaso diversi studi AAA e finché certi elementi vi rimarranno all’interno, non mi aspetto dei cambiamenti significativi legati alla cultura woke. Un chiaro esempio è Obsidian, dove il management è apertamente schierato e incapace di separare la politica dal lavoro, come dimostra il caso di Matt Hansen con annessi leak. Oppure Activision, con il suo CEO Rob Kostich che dichiara di rimanere fedele ai principi della DEI mentre i suoi dipendenti invitano i loro contatti sui social a eliminare fisicamente i repubblicani. E non sono casi isolati. Attivisti come Mary Kenney, ex Insomniac e Sweet Baby Inc, continuano ad essere assunti in studi come CD Projekt RED, che sui loro siti web mostrano fieramente l’impegno verso ESG e DEI. Corinne Busche lavora adesso per Wizards of the Coasts. L’ex marketing director di Concord fa ora parte di Halo Studios. E la lista continua. I motivi sono soprattutto geografici ed educativi. Gran parte dei publisher ha sede in California, l’epicentro del movimento “woke”. Poi da almeno 10 anni a questa parte l’istruzione americana (e non solo) è stata contagiata dal ‘follemente corretto’ e chi esce dalle università se ne porta inevitabilmente dietro l’influenza.
Non so se avete sentito ma negli scorsi giorni sono trapelate delle immagini provenienti da un master di game design in un’università svedese. Nella prima foto possiamo vedere un bellissimo esemplare di omone con le tette, nell’atto molto mascolino di scrocchiarsi le dita. Nella seconda, una splendida signorina non binaria nel suo incantevole vestito blu, intenta a lanciare uno sguardo seducente e al contempo penetrante. Poi una serie di precetti fondamentali tradotti dallo svedese per il design di personaggi di picchiaduro che non siano né maschi né femmine, insieme a informazioni sul femmismo marxista e sul cattivissimo Gamergate. L’autore del leak, uno studente cinese in trasferta, è stato poi contattato dal rettore e costretto a rilasciare una dichiarazione di scuse sui social. Il futuro del game design è in buone mani.
Ora, ci tengo a ribadire che non c’è nulla di male nell’essere politicamente schierati e difendere le proprie opinioni in pubblico. Ognuno ha il sacrosanto diritto di credere in ciò che vuole, anche nell’esistenza del Molise. L’importante è non lasciare che ciò contamini il proprio lavoro e sfociare nella becera propaganda. Se non altro, perché è ormai chiaro che il pubblico non apprezzi questo genere di manovre. A mio avviso si è perso il vero significato di diversità e inclusione, che sono sempre esistite nei media d’intrattenimento dal Giappone agli Stati Unti. Qualcuno si è mai lamentato di Morrigan in Dragon Age? Di Barret in Final Fantasy VII? Della politica in Metal Gear? Non mi sembra. Eppure oggi la discussione si è esasperata a tal punto che un paio di tette provochino una bufera. Abbiamo perso la moderazione. Essere progressisti non dovrebbe significare imporre quote e creare corsie preferenziali. Censurare script e design in stile Santa Inquisizione. Ghettizzare e silenziare chi non la pensa come te chiamandolo Adolfo. Questi sono invece atteggiamenti regressisti e dittatoriali, punto.
Insomma ragazzi, il “woke” è morto? Alla luce di quanto detto finora, di certezze non ne abbiamo. Ma è estremamente probabile che la DEI nel mondo dei videogiochi si ridurrà ai minimi termini, grazie al calo degli investimenti ESG e alla risposta negativa del pubblico agli elementi woke. Non credo sia stato un problema di principio, almeno non per quanto mi riguarda, ma di come lo abbiano applicato. La differenza sottile ma sostanziale tra l’Emil di Nier e la Taash di Dragon Age Viola. Sta tutto lì. Di sicuro finanziamenti e attivisti continueranno a ricoprire un ruolo da dietro le quinte, perciò non ha senso cantare vittoria e abbassare la guardia. Eppure, dovranno rimodulare pesantemente la loro metodologia d’azione o si ritroveranno ancora una volta ad essere rigettati dal mercato. E se la DEI dovesse scomparire del tutto, chiunque abbia un cervello funzionante dirà che si tratta di suicidio (detto alla ispettore Catiponda). Basta dare la colpa al pubblico e fargli i predicozzi. Iniziamo piuttosto a migliorarci e tornare a produrre un intrattenimento di qualità per tutti, da destra a sinistra.