Circa 8 mesi fa (minchia come passa il tempo) ho pubblicato un video in cui parlavo del declino di Playstation. È un argomento che invero io tratto dal 2018, quando criticare Sony era ancora punibile con l’amputazione della fava. Solo che oggi questa crisi mistica è sotto gli occhi di tutti, persino di chi negava l’evidenza dandoti del boxaro. Sarò un veggente, chissà, ma per me è sempre stato chiarissimo. Fin dall’approdo in California, la strategia di PlayStation ha subito trasformazioni sostanziali che riflettevano un mutamento strutturale all’interno dell’azienda: dalle ambizioni live service all’inflazione dei costi delle produzioni AAA, fino a una gestione del catalogo che punta sempre più su remaster e riedizioni, l’identità di PlayStation è inevitabilmente cambiata. Le dichiarazioni alla stampa e le recenti ristrutturazioni dirigenziali parlano chiaro: l’obiettivo non è più (solo) vendere console e giochi premium, ma massimizzare l’engagement degli utenti e monetizzare ogni segmento del ciclo di vita di un gioco.
I principali esponenti della Sony odierna sono figure come Lin Tao e Hideaki Nishino, rispettivamente CFO e CEO di Sony Interactive Entertainment, che insieme al CEO generale Hiroki Totoki stanno ridefinendo i parametri del successo per il marchio. «In passato ci si concentrava sulle unità vendute, ma ora l’attenzione è rivolta agli utenti attivi mensili», ha detto la Tao a proposito della divisione gaming dell’azienda. «La dirigenza è focalizzata sull’engagement e sui MAU. Questo porta alla redditività.» Hm. Ciò significa che i giochi vengono valutati soprattutto in funzione della loro capacità di trattenere l’utenza nel tempo e generare entrate ricorrenti tramite abbonamenti, microtransazioni e contenuti aggiuntivi. Insomma, alla Fortnite. Non è un caso che Sony abbia dichiarato profitti record negli ultimi anni, pur in assenza di un flusso continuo di esclusive dirompenti: è il nuovo modello di business che sorregge la baracca.
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A dare il là al cambiamento sono stati gli ormai celebri Jim Ryan e Hermen Hulst, o almeno questo è quello che si dice in giro. Perché sembra quasi che sti due siano diventati i capri espiatori per ogni singolo passo falso di Playstation. Aumentano i prezzi? Colpa di Ryan. Il PSN viene hackerato? Maledetto Hulst. Sono praticamente gli Adolfi Itleri della situazione. A mio avviso questo genere di narrativa è riduttivo e fuorviante, anche perché molte delle decisioni strategiche più incisive fanno parte di linee guida aziendali che superano il ruolo del presidente di SIE.
Il tanfo diarroico è iniziato da quando Shuei Yoshida ha lasciato la guida dei Worldwide Studios nel 2019. Yoshida era un sostenitore convinto delle produzioni creative, sperimentali, spesso anche rischiose (si pensi a giochi come Gravity Rush, The Last Guardian, Puppeteer o Tokyo Jungle), e come lui sia Shawn Layden che Kazuo Hirai, entrambi abdicati intorno al 2019. Da quel momento in poi si è registrato un progressivo irrigidimento su logiche più aziendali: IP consolidate, mega budget, e live service con ritorni costanti. Tutto questo rientra in una strategia più ampia e non può che essere stata approvata, se non addirittura spinta, dai vertici di Sony Corporation.
A mio avviso il principale colpevole è quel genio di Kenichiro Yoshida, divenuto CEO di Sony nel 2018. Yoshida è noto per il suo approccio molto attento ai profitti e alla centralità del segmento Entertainment & Technology Services, in cui rientra PlayStation. Ha spinto per una forte monetizzazione di tutte le divisioni Sony e ha incentivato la sinergia tra gaming, musica, cinema e tecnologia proprietaria (vedi anche gli investimenti in anime, sensoristica e IA). Della stessa pasta anche Hiroki Totoki, ora presidente e CEO di Sony Group, il quale ha ribadito più volte la necessità di rendere le produzioni più sostenibili e scalabili, insistendo su riforme strutturali. Le sue dichiarazioni sugli “utenti attivi mensili” come nuovo KPI centrale lo confermano. Yoshida e Totoki sono praticamente pappa e ciccia.
Jim Ryan, per quanto responsabile di numerose cappellate, è stato più un esecutore di questa visione corporate che il suo ideatore. In altre parole: il modello di business “as-a-service”, l’enfasi sulla crescita costante dei profitti e la monetizzazione continua sono decisioni che rispecchiano un cambio di paradigma a livello di conglomerato industriale. In questo contesto, figure come Hermen Hulst o lo stesso Ryan, per quanto imbecilli, sono responsabili solo fino a un certo punto. D’altronde il pesce puzza sempre dalla testa, no? E questi vecchiacci in giacca e cravatta sanno bene come scaricare le responsabilità delle loro stronzate ai “fall guys” della situazione, ad esempio il Bob Chapek di Disney. Sta di fatto che l’anima creativa che aveva contraddistinto PlayStation nelle generazioni precedenti è stata gradualmente sostituita da un’ottica più aziendale, che ora sta mostrando tutte le sue crepe.
È emblematico il caso di Haven Studios, acquisito da Sony con grande enfasi nel 2022. Inizialmente si pensava che l’acquisto fosse motivato dall’interesse per Fairgame$ e la presenza di Jade Raymond, veterana dell’industria con un talento naturale per eccellere nella categoria MILF. Tuttavia, recenti indiscrezioni dicono che in realtà Sony volesse soltanto appropriarsi dell’IA sviluppata da Haven per la generazione automatica di asset all’interno del loro titolo. Roba un tantino preoccupante, se ci pensiamo. Mi vengono flashback traumatici da Activision e Call of Duty. Ma vabbè. In ogni caso il gioco viene descritto da chi lo ha provato in closed test come una delusione, e sinceramente ce lo aspettavamo già dal trailer. La stessa Raymond ha lasciato il team proprio nelle scorse settimane, compiendo la tripletta dopo aver già fallito con EA e Google Stadia. Alla faccia dei rumour sull’entusiasmo dei vertici di Sony per il progetto.
In parallelo, Bungie si trova in una crisi nera, con morale bassissimo e Marathon che rischia di diventare Concord parte 2. Tra confusione, licenziamenti, plagi e cause legali, sembra che non sappiano più che pesci pigliare. Nell’ultima live i due sviluppatori davanti alla telecamera avevano l’aria di due condannati a morte. Non dev’essere bello trovarsi in quella posizione a causa di una dirigenza incompetente. E non parlo solo di quella di Bungie. Sony ha sbagliato nel sovraccaricare Bungie di responsabilità extra-produttive, nel frammentare ulteriormente il team e nell’avere aspettative irrealistiche su un progetto come Marathon, che sarebbe già stato fragile anche in condizioni normali. E il prezzo premium? Un’ulteriore follia che dimostra come dal fallimento colossale di Concord non abbiano imparato nulla.
Continuano a cazzo durissimo convinti di poterci pure sfondare i muri. Non hanno la minima intenzione di abbandonare la strategia attuale. Se pensavate che dopo Ryan sarebbero magicamente tornati quelli di un tempo, vi conviene tornare con i piedi per terra. Sony, in questo momento, sta semplicemente ridefinendo le priorità, tagliando i progetti meno promettenti e rafforzando quelli che possono garantire ritorni significativi. Il focus di investimenti rimane 60% live service e 40 esperienze tradizionali, che ad ogni modo non saranno più i blockbusteroni da 200 milioni ciascuno. E da un lato, forse è anche meglio così. Per dirvi, a me sta bene che puntino sull’Asia fungendo da publisher per roba come Stellar Blade e Lost Soul Aside. E gioisco quando mi tirano fuori l’Astrobot di turno. Il problema è che non accade spesso e di certo né questi titoli, né la tredicesima riedizione di The Last of Us, potranno mai contribuire ad espandere la loro base installata ormai in stallo su PS5.
E allora la roba alla Ghost of Yotei? Sì, può funzionare, ma fino a un certo punto. Vedete, il pubblico medio di Playstation non è più quello di 15 anni fa. L’età media si è abbassata notevolmente e i titoli più giocati sul PSN sono Fortnite, COD, Roblox e simili. La nostra generazione, e il suo attaccamento ai single player, non fa quasi testo nel quadro globale. E Sony lo sa bene. Quando le dichiarazioni agli investitori del tuo CFO ruotano attorno a concetti come “engagement”, “utenti attivi mensili” e “monetizzazione ricorrente”, difficilmente si riferisce ai single player. Quando una dirigenza parla apertamente del fatto che il focus non è più sulle unità vendute, ma sulla quantità di utenti attivi e su quanto tempo trascorrono nella piattaforma, è evidente che si sta guardando a un modello di business fondato sull’interazione continua. E questo modello, nel mondo del gaming, si traduce in live service.
L’enfasi sulle microtransazioni, sugli abbonamenti, sulla crescita della base installata come leva per aumentare la spesa pro capite, sono tutti segnali di una visione a lungo termine in cui l’esperienza “completa”, che si consuma una volta e si archivia, non è più al centro. Un gioco come Ghost of Tsushima o Uncharted 4 ha un impatto iniziale fortissimo, ma non contribuisce molto a quei MAU una volta che il giocatore lo ha finito. Un gioco come Helldivers 2, invece, può far crescere e mantenere alta la partecipazione, la spesa e l’interesse verso l’ecosistema PlayStation anche mesi dopo il lancio. Non dimentichiamoci inoltre che metà della base installata sta ancora su PS4. E lì non stanno spingendo la nuova generazione come veicolo per esperienze narrative di alto livello, ma come piattaforma per mantenere la gente connessa e costantemente coinvolta. È il linguaggio tipico delle aziende che mirano a costruire ecosistemi chiusi e redditizi nel tempo, mica di quelle che ti creano il Clair Obscur della situazione. Preferiscono piuttosto alzare i prezzi di giochi e hardware cercando ogni scusa possibile e immaginabile, dai dazi alla fantomatica inflazione.
Insomma, quello che una volta era un marchio sinonimo di visione artistica, giapponesità e giochi che ti rimanevano dentro, oggi sembra solo rincorrere le tendenze di mercato. E il problema, purtroppo, non è solo strategico: è proprio culturale. Stanno cercando di piegare una piattaforma nata per attrarre i sognatori a un’ottica da tabellone Excel, infilandoci dentro giochi pensati per trattenere, non per emozionare. Come se bastasse un battle pass per colmare il vuoto lasciato da un ICO o un Demon’s Souls. È chiaro che in mezzo a tutto questo GAAS di scarico qualche progetto interessante continuerà ad uscire: Astro Bot ne è la prova. Ma sono eccezioni. Lampi nel buio. Per il resto, dobbiamo metterci in testa che PlayStation non è più quella di un tempo, e forse non lo sarà mai più. E non per colpa dei creativi, che anzi vengono ridimensionati e marginalizzati. Ma per colpa di una classe dirigente che ha deciso di inseguire i numeri invece delle idee.
Poi oh, magari questa nuova strategia funzionerà. Magari tra cinque anni ci ritroveremo con uno shooter live service firmato Sony che surclassa COD e Valorant messi insieme, che ne possiamo sapere. Ma detto francamente? Ne dubito. E in ogni caso non riporterebbe indietro la vecchia Sony. Quella che si prendeva dei rischi e lasciava spazio alla creatività. Quella che faceva i giochi per noi, e non per gli azionisti. Ah, che brutta piega ha preso l’industria del videogioco.