the last of us 2 part

The Last of Us 2 è ancora oggi un fallimento narrativo

Quando The Last of Us Parte II uscì nell’ormai lontano 2020, fu accolto come un’opera monumentale. Un gioco che voleva parlare di empatia, vendetta, trauma come nessun altro prima di lui. Un racconto adulto, profondo, coraggioso. Qualcosa che, a detta di molti, portava lo storytelling nei videogiochi a un livello superiore. E credo che un po’ tutti fossimo hyppati dall’idea di un sequel del meraviglioso primo capitolo, in cui sia Neil Druckmann che Bruce Straley diedero il meglio di sé. Ma a distanza di 5 anni, tolta la patina dell’hype e delle lacrime facili, cosa resta? A me, oggi come ieri, resta l’impressione di un’opera che narrativamente si affossa sotto il peso delle sue stesse ambizioni. E approfittando della recente remaster su PC (qui venduta in sconto sul nostro sito partner CD Keys) e della seconda stagione della serie TV, vorrei costruirci sopra un discorso che, al di là del vostro parere sul gioco, spero possa farvi almeno riflettere su alcuni punti. Inutile dirvi che ci saranno spoiler, quindi se non avete ancora finito la parte 2 vi consiglio di tornare più tardi.

The Last of Us 2 è un titolo che fa incazzare. Perché a livello meccanico, artistico e tecnico è un prodotto di altissima qualità. Le sezioni stealth, specie quelle al buio nella seconda metà dell’avventura, sono memorabili e super coinvolgenti. La soddisfazione pad alla mano tocca vette esplorate di rado dai colleghi di genere, confermando ancora una volta l’estrema bravura dei Naughty Dog. La cura maniacale dei dettagli, il level design intelligente e variegato, l’IA nemica reattiva e credibile, il feedback del combattimento, di un’azione fluida, tattica e allo stesso tempo dinamica. Ludicamente parlando, è tanta roba. Su questo credo ci sia ben poco da dire.

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Il discorso cambia quando passiamo al comparto narrativo, argomento di questo articolo. The Last of Us 2 si presenta come un’opera matura, riflessiva, una meditazione sul dolore e sulla perdita. Cerca di affrontare una miriade di tematiche classiche nel mondo dell’intrattenimento, unendole a commenti neanche troppo velati sulla situazione politica e sociale odierna. Ma tentando di parlare un po’ di tutto, finisce col non parlare bene di un granché. Compie, dunque, un errore di superbia: vorrebbe essere il Guerra e Pace del gaming, dimenticandosi che l’essenza di una grande narrazione non sta nella quantità dei temi trattati, ma nella precisione con cui li si scolpisce. Tutto sembra buttato lì in fretta, in preda a una bulimia tematica: la redenzione di Joel ridotta a un singolo flashback dilazionato, la relazione tra Ellie e Dina approfondita solo nelle pagine di un diario, personaggi che entrano ed escono dalla storia come corrieri Amazon. È come se Druckmann volesse esporre centinaia di idee senza una degna struttura per farle sbocciare a dovere. Del tipo arrostiamo un maiale intero in una griglia portatile.

I personaggi secondari di The Last of Us 2 soffrono di una piattezza cronica. Jesse è una macchietta, un personaggio usa e getta: compare, pronuncia due frasi e viene eliminato con un colpo secco in testa. Yara, praticamente la stessa cosa. Mel, Owen e gli altri compagni di Abby sono appena abbozzati. Dina, invece, è una presenza potenzialmente interessante alla luce del suo ruolo chiave nella storia, ma viene ridotta a mero motore emotivo per Ellie. Nessuno di loro vive di luce propria: esistono solo in funzione delle protagoniste. Questo toglie tensione e prevedibilità: appena un personaggio minore torna in scena, sai già che morirà. Appena Abby inizia a umanizzarsi, sai già che Ellie esiterà. Le azioni diventano coreografie ovvie, senza sorpresa né respiro.

Appunto intorno al percorso di Abby gira l’operazione narrativa più discutibile. L’intento è chiarissimo: obbligare il giocatore a vedere l’altra prospettiva, a riconoscere che nessuno è davvero cattivo. Ma il mezzo usato per raggiungere questo scopo è sbandieramento puro, senza alcuna eleganza o sottigliezza. Dieci ore con Abby, tra sogni, bambini, cani, teen drama e missioni di salvataggio suicide. È come se il gioco urlasse costantemente: “GUARDA! È UMANA! SALVA LE ZEBRE FERITE! NON È SOLO UN BROCK LESNAR IN MINIATURA!” Tutto ciò diventa presto ridondante e dimostra di basarsi su una serie di azioni poco credibili. Come la scelta di Abby di disertare il suo gruppo per salvare due perfette sconosciute, Yara e Lev, rischiando la vita e scatenando un massacro. È un cambiamento troppo rapido e troppo comodo, scritto più per dimostrare qualcosa al giocatore che per far crescere un personaggio. Il problema non è il messaggio, ma proprio la sua esecuzione paternalistica, quasi condiscendente. Chi ha finito il primo capitolo aveva già gli strumenti per intuire la complessità degli altri schieramenti e mettere in discussione la scelta di Joel. Non aveva bisogno di lanciare dei giocattoli ai cani.

La morte di quest’ultimo, peraltro, incarna perfettamente l’approccio manipolatorio della narrazione. Arriva troppo presto, è gestita in modo frettoloso, giusto per dare un senso all’intera storia. Poteva essere memorabile ma avviene in modo meccanico, quasi superficiale. Non c’è lotta, non c’è orgoglio, non c’è nemmeno quella furbizia che ci si aspetta da un personaggio come Joel. Subisce in silenzio e amen. Peggio ancora, il gioco nasconde volontariamente un flashback fondamentale, in cui lui ed Ellie stavano ricostruendo il loro legame. Lo tira fuori solo alla fine, come twist emotivo, per costringerti a rivedere tutto retroattivamente. Il risultato è un senso di frustrazione: la tristezza non nasce dal coinvolgimento, ma da una strategia di sceneggiatura abbastanza grossolana. È la differenza tra vivere un lutto e guardare un copione che ti dice “ok, ora devi piangere”.

E poi ci sono i flashback. Tanti. Troppi. Usati come stampella per compensare la mancanza di costruzione narrativa nel presente, frammentando il ritmo del racconto. Ogni emozione forte viene appesa a un ricordo passato: Abby col padre, Ellie nel museo spaziale. I flashback con Joel sono gli unici momenti che mi hanno coinvolto, a testimonianza del fatto che il rapporto tra i due, esplorato in modo divino nel primo capitolo, aveva ancora molto da offrire. Ma spesso questi momenti, specie nel caso di Abby, non aggiungono nulla: dicono solo quello che già sappiamo o intuiamo. Sono usati come pezze emotive, inseriti per tappare buchi invece che per spingere la storia a progredire.

Le fazioni, boh, sono davvero inconsistenti. I WLF (che ho sempre considerato acronimo di Viva la Figa) sono ultra generici e non hanno una vera evoluzione narrativa. I serafiti vengono introdotti come un culto primitivo, devoto alla “Voce” della loro santona e a un ritorno mistico alla natura. Vivono come se il mondo pre-apocalisse fosse un’eresia, con codici rigidi, riti arcaici e una struttura fortemente tribale.

Eppure, nel bel mezzo di questo contesto estremamente retrogrado e pre-industriale, la più grande trasgressione che una giovane può commettere… è il taglio di capelli? E tutto crolla per quello? Il dramma di Lev ruota attorno a un rifiuto della propria identità, e viene respinto brutalmente da una madre fanatica che vuole addirittura ucciderla. Ma è un fanatismo che si regge su concetti contemporanei, non coerenti con l’universo narrativo. Il contrasto è netto: come può un culto che non ha accesso a Internet, cultura globale, o persino elettricità, articolare un rifiuto specificamente “ideologico” verso il concetto di transizione di genere, come lo intendiamo oggi? Sarebbe molto più verosimile che i Serafiti punissero la ribellione in sé, non il “cosa” si vuole diventare. Il risultato è che sembra tutto scritto con in testa l’oggi, e non il mondo del gioco. È fiction post-apocalittica che puzza di contemporaneo.

Lev è un personaggio che esiste per motivi esterni alla storia. Non per arricchirla, ma per soddisfare un’agenda. La sua disforia è accennata, non esplorata, oltre che poco credibile a 13 anni. Le sue azioni, ovvero fuggire dalla madre, tornare nel villaggio, causare involontariamente la morte della sorella e della madre stessa, sono spesso incoerenti e mal giustificate nel contesto di un mondo dove la sopravvivenza è tutto. Lev non è un personaggio con un arco narrativo ben sviluppato, è soltanto un pretesto per tentare di redimere Abby e piazzare un po’ di ideologia. E questo, in una storia che vuole parlare di umanità, è un problema serio.

Proprio quella che viene fraintesa nella caratterizzazione delle due protagoniste. Ellie uccide. Uccide tanto. Tortura, macella, massacra. Poi si ferma… e piange. L’intento è chiaro: mostrarti il costo emotivo della violenza. Ma dopo 20 ore in cui sei stato incentivato a comportarti come un terminator, uccidendo cani e donne incinte, questo cambio di tono arriva troppo tardi. È difficile empatizzare quando la narrazione ti chiede un senso di colpa che non hai avuto il tempo o il contesto per maturare. Si arriva al messaggio finale del “la violenza non porta a nulla”, trito e ritrito oltre che trattato decisamente meglio altrove. Tristezza e depressione senza un vero significato. Puro nichilismo ultra drammatico. Tutto in The Last of Us 2 è costruito per trasmettere solennità: i silenzi, la musica, l’atmosfera cupa, le scene adulte. Ma la forma non basta. Perché sotto quella patina triste e sporca c’è ancora un videogioco con logiche da action movie. La gravità non è profondità. E questo gioco spesso confonde l’una per l’altra.

Ci sono poi degli evidenti buchi logici in avvenimenti chiave della storia. Uno dei più evidenti riguarda la scena in cui Joel e Tommy incontrano Abby e il suo gruppo. Dopo averla salvata dagli infetti, i due si rifugiano con lei in un’abitazione isolata, dove sia Tommy che Joel rivelano tranquillamente i propri nomi a perfetti sconosciuti. “Sì, io sono Joel. Ecco il mio numero di telefono, indirizzo e tessera sanitaria. Volete venire con noi e fare provviste? Nel frattempo vi offro anche un raspone omaggio.” Questo comportamento stona totalmente con la paranoia e la prudenza che aveva nel primo gioco e da come lui e suo fratello vengono descritti nei documenti reperiti in game. Joel, reduce da anni di sopravvivenza in un mondo brutale e consapevole delle conseguenze delle sue azioni con le Lucciole, non avrebbe mai abbassato così la guardia. La scena serve solo a portare in fretta alla vendetta di Abby, ma il modo in cui ci arriva è forzato e incoerente. Considerando pure che Abby non si degna neanche di verificare se effettivamente Joel sia quel Joel e gli spara alla gamba senza fare alcuna domanda in modo del tutto ingiustificato. E in ogni caso come fa a sapere il suo cognome? Mistero della fede.

Altro punto critico: Ellie e Tommy vengono risparmiati ben due volte da Abby e i suoi. Dopo aver ucciso Joel davanti a loro, il gruppo li lascia vivi senza nessuna giustificazione convincente, se non il fatto che Abby voleva solo Joel. Ma se davvero temevano una vendetta, cosa che si avvera puntualmente, perché lasciarli andare? Il gioco ti dice, tramite un dialogo con Dina, che forse sono stati stupidi e ingenui. Credibile, specie da parte di sopravvissuti in un mondo post-apocalittico. E quando Abby ritrova Ellie al teatro, dopo un conflitto sanguinoso, sceglie ancora una volta di non ucciderla. Queste decisioni sembrano mosse più da esigenze di gameplay che da logica narrativa.

C’è poi il momento assurdo in cui Ellie lascia accanto ai cadaveri di Owen e Mel la mappa con la posizione esatta del teatro dove si nasconde con Dina e Jesse. Una svista inspiegabile da parte di una veterana del campo di battaglia che, in teoria, ha finora vissuto in un mondo dove ogni mossa può essere fatale. È una scelta inserita solo per permettere ad Abby di localizzarla, ma senza alcun senso pratico.

Verso il finale, Tommy, che ormai è zoppo e provato da tutto quello che ha vissuto, torna da Ellie con un atteggiamento a dir poco schizofrenico: non solo la accusa di aver fallito la missione di vendetta, ma la sprona a ripartire per cercare ancora Abby, con toni colpevolizzanti. Pura follia, ragazzi. Non solo perché aveva intrapreso un viaggio solitario nel tentativo di farsi giustizia senza mettere gli altri a repentaglio, ma aveva sempre suggerito ad Ellie di non vendicarsi in quanto troppo rischioso e di scarsa utilità. Coerente, no? Come uccidere uno dei pochi personaggi decenti del gioco senza effettivamente ucciderlo. Viene ridotto a mero espediente per giustificare il secondo forzatissimo viaggio della vendetta, che poi neanche si compirà.

E badate bene. Il fatto che siano lacune logiche gravi nell’economia degli eventi viene sottolineato non da me, ma dallo stesso Druckmann. Nella serie TV, infatti, alcune di queste criticità sono già state limate. Ad esempio l’incontro con Abby avviene durante un turno di pattuglia di Joel e Dina, la quale in una situazione di pericolo lo chiama inavvertitamente per nome (e ci può stare). Mentre Abby, prima di uccidere Joel, intrattiene un lungo dialogo con lui e si accerta che sia effettivamente lo stesso uomo che ha ucciso suo padre. Varie altre dinamiche sono diverse dal gioco, persino l’aspetto di Abby viene reso più credibile, penso nella speranza di trasmettere più empatia. Questo dimostra due cose: da un lato, la consapevolezza che la struttura e le scelte del gioco non fossero perfette; dall’altro, la volontà di restituire ai personaggi e alle dinamiche emotive una coerenza e un impatto che nel gioco erano spesso carenti. Persino il tracotante Druckmann, ora più distaccato dalla pressione del medium videoludico, ha compreso i limiti della narrazione originale e sta cercando di apportare delle correzioni come spero continui a fare anche riguardo agli altri punti che ho citato.

E siccome non voglio essere il solito criticone distruttivo, vi fornisco anche due esempi di storytelling di qualità a cui forse The Last of Us 2 avrebbe dovuto ispirarsi. Il primo è Kill Bill, ovvero la prova che una storia di vendetta può essere spietata, lunga, crudele… eppure coerente, forte ed emotivamente carica.

Beatrix, proprio come Ellie, parte da un trauma devastante: viene tradita, massacrata, privata di tutto. Anche lei si lancia in una missione di vendetta, lasciandosi dietro una scia di cadaveri. Ma la differenza enorme è che Kill Bill non finge che la violenza sia qualcosa che va condannato o digerito a forza. Tarantino ti racconta una storia in cui la vendetta è centrale, ma la carica di stile, tensione, umanità e significato. Non la svuota per poi dirti: “Eh! Volevi!”. Anzi, il viaggio della Sposa è pieno di momenti di empatia non imposti. Quando combatte contro Vernita davanti alla figlia, o quando piange con Elle Driver per la morte del Maestro Pai Mei, o ancora nel confronto finale con Bill, non servono 10 ore di flashback o un secondo personaggio giocabile per farti capire che anche i nemici sono esseri umani. Bastano due dialoghi scritti bene, due sguardi, due silenzi.

Inoltre, Kill Bill ha un finale che funziona proprio perché è una conseguenza naturale del percorso emotivo della protagonista. Quando La Sposa arriva da Bill, non lo uccide in modo freddo e brutale. Hanno un confronto lungo, tenero, umano, malinconico. Lui accetta la morte. Lei lo piange. E noi con lei. È una scena che ti lascia svuotato, ma anche soddisfatto. Perché tutto è arrivato al punto esatto in cui doveva arrivare. The Last of Us Part II, invece, si comporta come se dovesse “educare” lo spettatore. Ellie è La Sposa per metà gioco, poi di colpo dovrebbe diventare qualcuno che si redime… ma non perché l’ha capito, non perché ha attraversato un cambiamento. Semplicemente perché la sceneggiatura decide di premere il pulsante X per provare pietà. Senza neanche tentare il dialogo con Abby. È come se Kill Bill finisse con Beatrix che guarda Bill e dice “ti lascio vivere perché non sono più arrabbiata. Ciao.”, senza un briciolo di catarsi. Sarebbe stato falso, incompleto.

Il secondo esempio che vi porto riguarda la struttura narrativa e coinvolge uno dei miei giochi preferiti di sempre, ovvero Nier Automata. Ecco, Nier e The Last of Us 2 condividono un’idea di fondo: prendere il giocatore, fargli vivere una realtà parziale, e poi ribaltarla mostrandogli che dall’altra parte c’è un mondo diverso, fatto di verità scomode e umanità inaspettata. Entrambi usano questa struttura a specchio, dove la seconda metà reinterpreta la prima. Ma mentre in Nier Automata questo meccanismo è costruito con intelligenza, profondità e coerenza tematica, in TLOU2 risulta forzato, didascalico, e quasi punitivo nei confronti del giocatore.

In Nier, la scelta di farti giocare prima come 2B e poi come 9S e A2 non è una trovata narrativa fine a sé stessa. Non si tratta di vedere l’altro lato della storia in senso banale. È un’esplorazione filosofica su identità, percezione, e soprattutto sul senso della lotta. Tu giochi una guerra tra androidi e macchine e all’inizio la vedi come qualcosa di netto: giusto contro sbagliato. Ma pian piano il gioco ti costringe a mettere in dubbio tutto. Ti mostra che entrambe le parti soffrono, che entrambe cercano senso, e che il ciclo della distruzione continua perché nessuno riesce a immaginare un’alternativa. Questo ribaltamento non arriva a schiaffi, ma si insinua lentamente, con i dialoghi, le side quest, la musica, i testi nascosti, le pause. Non c’è giudizio morale forzato, non c’è condanna del giocatore. Solo un invito continuo a riflettere e mettere in discussione ciò che stai facendo.

In TLOU2, invece, la struttura speculare serve a uno scopo preciso: farti sentire in colpa. Ti fa giocare una prima metà intensa, coinvolgente, in cui Ellie, pur ambigua, è motivata da una perdita tangibile. Poi però il gioco spezza tutto, cambia prospettiva, e ti fa vivere l’intera seconda parte con Abby cercando di riempirti di sensi di colpa. Ma lo fa senza finesse. Ti impone una lunga sequenza di gameplay con personaggi introdotti in fretta, motivazioni date per scontate, e flashback che cercano di umanizzare retroattivamente. E invece di approfondire davvero il dilemma morale, ti spinge semplicemente a non voler più combattere. Non perché hai capito qualcosa, ma perché sei esausto. È quasi manipolatorio, come se il gioco volesse domarti, più che portarti a una consapevolezza.

Nier non ha bisogno di giustificare nessuno. Non cerca di farti empatizzare con i nemici dicendo “guarda, anche loro hanno un briciolo di umanità”, ma ti mette davanti a dilemmi esistenziali molto più vasti: cosa significa continuare a combattere quando lo scopo è perduto? Quando i ricordi svaniscono? Quando l’identità si sfalda? Il gioco stesso ti prende in giro, a volte ti mente, a volte ti toglie il controllo, ma mai con disprezzo. È un dialogo tra il gioco e il giocatore, non una punizione.

Il finale è il colpo più pesante. Nier Automata non solo ti propone una fine tragica e poi ti dà la possibilità di cambiarla, ma per farlo devi rinunciare a tutto. Il gioco ti chiede: “Se vuoi salvare questi personaggi, devi sacrificare ciò che hai di più caro: il tuo salvataggio. Vuoi farlo?” Ti spinge insomma a partecipare a un gesto di speranza reale, concreto, attivo. E quel gesto viene condiviso con altri giocatori, in un’esplosione collettiva di significato. Non è solo un finale positivo. È un atto simbolico e commovente. In TLOU2, Ellie rinuncia alla vendetta, ma lo fa tardi, nel momento in cui non cambia più niente. E lo fa in modo quasi passivo, come se non riuscisse più a farlo, non come se avesse scelto di non farlo. Quello che doveva essere un messaggio di crescita diventa un epilogo vuoto. Ha perso Joel, ha perso Dina, ha perso le dita. È da sola. Non ha imparato niente che ci venga mostrato. Non c’è un momento liberatorio. Non c’è catarsi.

E, per quanto mi riguarda, non c’è stato neanche coinvolgimento emotivo. Il che, in un gioco che si basa fortemente sulla narrativa, è una grave manchevolezza. Almeno secondo il mio punto di vista. So di far parte di una minoranza e che magari voi lo avete apprezzato ben più di me. Non vi do dei Gianni Morandi se avete apprezzato The Last of Us 2, così come è stupido bollare chi non l’ha gradito come troll destrorso feccia dell’internet (cit). Ognuno ha i propri gusti e nessuno dovrebbe essere giudicato in base ad essi. Mi auguro solo che si riesca a distinguere dei capolavori da degli ottimi giochi già all’uscita, senza lasciarsi prendere dall’hype e senza il bisogno di attendere 5 anni e una serie TV che sta iniziando a scontentare gli spettatori. Perché alla fine The Last of Us 2 questo è, un ottimo gioco. Ma anche una grandissima occasione sprecata, vista la grandezza del primo capitolo che continuo a considerare enormemente superiore in termini narrativi e che secondo me non avrebbe avuto bisogno di un sequel.

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