Darrah di Bioware: “I vostri 80€ non comprano la crudeltà”

La scorsa settimana Mark Darrah, veterano di BioWare, ha pubblicato un video su YouTube intitolato “Your $70 Doesn’t Buy You Cruelty”, in cui critica aspramente alcuni comportamenti tossici di una parte della comunità videoludica. Darrah sottolinea come sia inaccettabile che alcuni giocatori festeggino i licenziamenti degli sviluppatori o attacchino personalmente i membri dei team di sviluppo per insoddisfazione verso un gioco. Afferma che, sebbene i giocatori abbiano il diritto di esprimere critiche verso un gioco acquistato, questo non giustifica atti di crudeltà o attacchi personali nei confronti degli sviluppatori, spesso diretti a persone che non hanno alcun controllo sulle decisioni che hanno portato ai problemi contestati. Darrah evidenzia inoltre che, quando i giocatori celebrano i licenziamenti in uno studio perché un gioco non ha soddisfatto le aspettative, stiano oltrepassando un limite e mostrando una mancanza di empatia.

Posta così, l’opinione sembra più che ovvia e condivisibile. Non dovrebbe neanche esserci bisogno di sottolineare determinati concetti rientranti nell’ambito del buonsenso. Gli attacchi personali, le minacce, il doxxing, e in generale qualsiasi comportamento violento nei confronti degli sviluppatori è inaccettabile, oltre che stupido. Chiunque con un minimo di cervello sarà d’accordo su questo. Ma alle dichiarazioni di Darrah manca un elemento fondamentale, ovvero il contesto. Perché se è vero che alcuni giocatori esagerino, l’industria dei videogiochi continua imperterrita a sfuggire alle proprie responsabilità cercando sempre nuovi capri espiatori.

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Nel suo video, Darrah lascia intendere che i giocatori dovrebbero prendersela solo con la “corporazione senza volto” e non con i singoli sviluppatori. Una posizione in parte condivisibile, viste le sparate di gentaglia come Androide Wilson che ha attribuito il flop di Dragon Age Viola alla sua natura da gioco single player dopo gli svariati cambi di direzione che lo stesso management di EA ha imposto allo studio. Ma Bioware, vorrei ricordare, non è più la stessa da decenni. A prescindere dal fatto che gli errori siano potuti scaturire da decisioni dei piani alti, fingere che la squadra deputata alla creazione del prodotto non c’entri nulla è a dir poco ingenuo. Secondo voi tutti i capoccia nei grandi publisher si mettono a fare micro-management mettendo bocca su questioni tecniche o artistiche? Io non credo che i colletti bianchi abbiano prescritto a Mass Effect Andromeda di avere animazioni facciali da meme, ad Anthem di gestire il loot in modo penoso o a Dragon Age Viola di essere scritto col culo. Anzi, spesso e volentieri gli sviluppatori stessi sono stati complici nel difendere scelte discutibili e nell’abbracciare un design sempre più lontano dalle radici della compagnia. I dissidenti hanno abbandonato da tempo, stanchi di vedere la propria azienda diventare una parodia di se stessa, e li rispetto enormemente per questo. Chi è rimasto, invece, ha comunque dato il proprio contributo alla distruzione di serie amatissime dai fan nel nome di denaro o ideologia.

Molti di questi sviluppatori usano i social per autoproclamarsi volti dei loro giochi e scatenare flame, come accaduto di recente con Bioware, Ubisoft e Obsidian. Parlo delle teste calde come David Gaider, Marc Alexis Cotè e Matt Hansen, con le loro tirate chilometriche su quanto i giocatori siano razzisti e omofobi, specialmente se bianchi e conservatori. Di quelli che si lamentano della tossicità online quando non fanno altro che sputare bile 24/7 augurando il peggio agli oppositori politici. Gli stessi che vorrebbero un mondo senza giocatori, la libertà di prenderli a pugni e covano il desiderio neanche troppo celato di eliminare il repubblicano di quartiere. A me non sembra che gente così abbia idea del significato della parola ‘empatia’. Né sia degno del mio rispetto. Di certo non vado a stalkerarli o scrivergli in privato perché di loro non me ne frega assolutamente niente e non sono uno psicopatico. Ma ogni azione, specie sul web, ha una conseguenza. E se lanci merda al prossimo, aspettati che il prossimo ricambi.

Guarda caso non si sente parlare di abusi verso gli sviluppatori tranquilli, che evitano di pubblicare commenti caustici su siti e forum. Sono sempre i soliti noti, coloro che da soli riescono a danneggiare dei prodotti altrimenti inoffensivi, come appunto accaduto con Avowed e il suo direttore artistico. Per colpa sua, tanti altri membri di Obsidian hanno pagato lo scotto di un lancio insoddisfacente e magari verranno anche licenziati più avanti come danno collaterale. Discorso simile per Bioware, dove i danni provocati da Corinne Busche e dal team di scrittori, con le loro cagate ideologiche, hanno già mietuto numerose vittime in larga parte incolpevoli. L’incompetenza di pochi fa saltare la testa di molti. Purtroppo non è una novità e il fenomeno continuerà a ripetersi, con danni incalcolabili per gli individui davvero talentuosi che faticheranno a trovare spazio nell’industria. E allora perché dovrei essere triste quando le mele marce vengono silurate? Da che mondo e mondo, è dovere delle aziende liberarsi degli elementi problematici. Cosa succede a un addetto al servizio clienti di Amazon che insulta un cliente in chat? Viene calciorotato su Plutone dal caporeparto, com’è giusto che sia. E se un cameriere interista vi piscia sull’insalata perché indossate un berretto del Milan, voi che fate? Non credo rimarreste in silenzio.

Ecco, forse la verità è che i giocatori sono stanchi di essere insultati e demonizzati dai media di settore e dagli sviluppatori. “Se non ti piace questo personaggio sei un -ista/-fobo”, “Se critichi questa decisione di design sei tossico”. Il mantra è sempre lo stesso: se sei in disaccordo, sei il nemico. Ma il rispetto non piove dal cielo. Se lo vuoi, devi prima darlo. I membri rilevanti del settore che sparano a zero contro i giocatori non sono poi tanto meglio degli utenti che si spingono stupidamente oltre la semplice critica. Dall’una nasce l’altra. E il web è pieno zeppo di troll. Generalizzare non serve a niente. La stragrande maggioranza dei giocatori chiede soltanto di essere ascoltata, presa in considerazione, coinvolta nel processo decisionale in quanto consumatori. Le aziende devono mantenere un buon rapporto con il proprio pubblico, anzi per giusta regola dovrebbero pure coccolarlo dopo un bel raspone. Invece il settore dei videogiochi ha figurativamente defecato sopra la sua fanbase negli ultimi dieci anni, con la cosiddetta stampa videoludica puzzolente a sostegno. E ora che i giocatori stanno votando con il portafogli, l’industria si lamenta della crudeltà. Mi spiace Mark: era solo questione di tempo prima che questa situazione scoppiasse e l’avete voluta voi.

Le critiche ai giochi recenti non arrivano nel vuoto. Gli ultimi anni sono stati un disastro per i tripla A: prezzi alle stelle, microtransazioni invasive, bug, carenza di ottimizzazione, promesse non mantenute. Eppure, quando uno studio chiude o alcuni sviluppatori vengono licenziati, si pretende che i giocatori abbiano compassione per un’industria che spesso non ha mostrato alcun rispetto per loro. Se un titolo fallisce perché la qualità è pessima, non è colpa del pubblico. Se l’industria continua a deludere i suoi clienti, i clienti rispondono come farebbero in qualsiasi altro ambito: smettono di comprare. Questa non è crudeltà, è la legge del mercato.

Il settore videoludico sembra essere l’unico dove, quando un prodotto fallisce, si cerca di dare la colpa ai clienti. Ma la realtà è chiara: le aziende devono capire il loro pubblico e offrire ciò che esso desidera. Questo non significa assecondare ogni richiesta irragionevole, ma nemmeno trattare i consumatori con disprezzo. Quando i giocatori si lamentano dell’inserimento forzato di agende politiche nei giochi, vengono derisi. Poi i giochi non vendono e gli sviluppatori, insieme ai giornalecchini che regalano 9 e 10, cascano dal pero. Lo stesso vale per il deterioramento della qualità: titoli mediocri, generici, dalle scelte di design confuse. I Concord e i Suicide Squad del caso, che floppano miseramente. E badate bene: non mi rifiuto di comprare perché sono crudele ma perché mi faccio i conti in tasca e decido che quel prodotto non valga il prezzo richiesto. Semplice.

Inoltre non stappo lo spumante quando uno studio chiude o avvengono licenziamenti di massa. Festeggiare la perdita del lavoro altrui ha della meschinità di fondo. E sarò sempre dalla parte degli sviluppatori appassionati di quel che fanno, innamorati dei videogiochi e dotati di visione creativa. A patto che anche loro stiano dalla mia parte. Non politica, s’intende. Frega poco della tua tessera di partito se dimostri di rispettarmi offrendomi prodotti di qualità che vengano incontro alle mie esigenze. Ricorderete il malcontento suscitato dalla chiusura di Visceral, il supporto sui social per Telltale Games e la raccolta fondi per gli sviluppatori di Project CARS. La community non è composta da ignobili filibustieri senza cuore, come si vorrebbe far credere, ma sa dimostrare gratitudine e premiare gli sforzi. Chiedete conferma anche a Supergiant, Hello Games, Edmund McMillen, Toby Fox e così via. D’altro canto, se mi proponi monnezza dandomi pure del Benito, mi sarà difficile provare empatia nei tuoi confronti quando vieni licenziato senza preavviso.

Qui la questione mi sembra abbastanza chiara. Mark Darrah e molti altri nell’industria devono capire (o fanno finta di non capire) che il problema non siano i giocatori cattivi, ma un modello di sviluppo che per anni ha ignorato i feedback e insultato il suo stesso pubblico. Le critiche esistono perché ai giocatori importa ancora dei giochi. Quando smetteranno di criticare, vorrà dire che hanno smesso anche di comprare. E a quel punto, sarà troppo tardi. Ubisoft docet. Se gli sviluppatori vogliono rispetto e comprensione, devono smettere di vedere i giocatori come nemici e ricominciare a trattarli come clienti. Perché alla fine l’industria videoludica è pur sempre un’industria. E senza clienti, non ha alcun tipo di futuro.

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