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Sviluppatore si suicida dopo accusa di molestia dalla SJW Zoe Quinn

In uno degli ultimi video (qui sotto) vi abbiamo dato il nostro punto di vista sul fenomeno dei guerrieri sociali, e cercato di spiegarne le origini dal punto di vista sociopolitico e filosofico. Oggi, però, ci occuperemo di nomi, cognomi e fatti dietro la valanga di bugie e cattiveria che ha consentito l’ingresso di questi social justice warrior nel mondo dei videogiochi. Riassumeremo le vicende del GamerGate e vi racconteremo in breve la storia di Zoe Quinn, una delle figure di rilievo del movimento anti-giocatori e pro-corruzione formatosi più di 4 anni fa.

Tutto inizia il 12 settembre 2014 con un passionale e articolato sfogo di un uomo nei confronti della sua ex. I personaggi in questione sono Eron Gjoni e Zoe Quinn, sviluppatrice indie emersa principalmente grazie alle sue campagne in favore dei diritti femminili nell’industria del gaming. Il post (https://thezoepost.wordpress.com), suddiviso in punti numerati, elenca una ad una le malefatte di Zoe durante la loro relazione, mostrando prove schiaccianti della moralità per così dire discutibile della ragazza.

Gjoni, all’interno del post, rende pubbliche le identità degli uomini con cui l’ex fidanzata lo aveva tradito e tra di essi figurano il suo capo Joshua Boggs (tra l’altro sposato), e una serie di noti “giornalisti” videoludici tra cui Robin Arnott e Nathan Grayson, ex Rock Paper Shotgun e oggi redattore di Kotaku.

Guerrieri Sociali, il punto della situazione, da Zoe Quinn al presente

Il conflitto di interessi appare subito evidente. In alcuni tra i suoi articoli, infatti, Grayson pubblicizza ripetutamente Zoe e il suo gioco, invitando tutta la sua cerchia di amicizie nella stampa americana a fare lo stesso. E in effetti, se andate a fare una ricerca, noterete uno strano e amichevole filo rosso che legava Zoe e le principali testate digitali non solo in ambito gaming ma anche generalista.

Non appena il post di Eron ha iniziato a diffondersi in modo virale, giocatori da tutto il mondo si sono uniti sotto l’hashtag #GamerGate puntando il dito contro la vergognosa corruzione dimostrata dalla stampa videoludica. Non era la prima volta che i cosiddetti giornalisti settoriali finivano agli onori della cronaca per la scarsa integrità professionale ma quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Ovviamente Zoe e cricca sono andati in allarme ed hanno fatto partire una vera e propria task force giornalistica per silenziare le critiche online e proporre una falsa narrativa che coprisse le loro malefatte. Numerosi gli strike DMCA contro canali YouTube che parlavano dello scandalo, così come una marea i post su forum, Reddit in primis, cancellati dai moderatori in modo assolutamente fazioso.

Ma se da un lato le critiche sono state censurate, gli insulti e le minacce hanno assunto il ruolo di capro espiatorio. È bene sottolineare che in effetti gli attacchi personali ci sono stati, sebbene rappresentassero l’assoluta minoranza del coro del GamerGate, e non abbiamo alcuna intenzione di giustificarli. Il problema sorge quando si attribuisce il comportamento di pochissime mele marce a milioni di persone che non c’entrano assolutamente nulla. Sarebbe come dire che in Italia esiste la mafia e quindi tutti gli italiani sono mafiosi. Stupido, a dir poco.

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Night in the Woods è uno dei videogame indie più interessanti e originali degli ultimi anni.

Eppure lo hanno fatto, e non sono neanche radi i casi di cyberbullismo falso organizzato da Quinn e amici, da cui più avanti prenderà spunto anche Anita Sarkeesian per recitare la parte della vittima e annullare le argomentazioni dello schieramento opposto. Che la maggior parte degli insulti e delle minacce arrivati alla combriccola di Zoe Quinn fosse costruita ad arte lo dimostrano vari documenti online, ad esempio il seguente che linkiamo e vi invitiamo a consultare. http://pastebin.com/ECUpVG5R

Grazie alla montagna di falsità sui giocatori, le principali testate sono riuscite a far passare il GamerGate dalla parte del torto, dipingendo Zoe Quinn come l’eroina oppressa e i critici come sessisti, misogini e tante altre belle parole. Leigh Alexander in particolare, che all’epoca lavorava per Gamasutra, ha dato un contributo enorme alla causa invitando innumerevoli colleghi e amici nella stampa a pubblicare articoli irrispettosi verso i giocatori (famoso quel titolo “Gamers are dead”) finendo per influenzare irrimediabilmente il grosso dell’opinione pubblica che ancora oggi rimane tutt’al più all’oscuro delle reali vicende.

Pensate che nel giro di 48 ore uscirono più di una dozzina di articoli sostanzialmente identici a livello tematico e concordi nel definire il GamerGate nient’altro che un movimento generato dall’odio verso le donne e dall’ignoranza di tutti coloro che si definivano giocatori. La morte di un’identità, come affermavano le grandi menti di Kotaku e Polygon. Da lì in poi molte di queste testate hanno iniziato a perdere credibilità lasciando spazio ai nuovi fenomeni YouTube e Twitch, al cui interno era possibile rinvenire opinioni oneste e trasparenti, al di fuori di ogni logica simil-massonica operata in ambito giornalistico.

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Anita Sarkeesian, una delle più celebri femministe emerse con lo scandalo del Gamergate.

Da lì in poi gran parte di quei siti iniziarono casualmente ad adottare nuovi regolamenti. Una delle norme consisteva nel dichiarare in modo esplicito l’esistenza di rapporti personali tra autore e soggetto dell’articolo, paraculandosi in ritardo per l’evidente mancanza di etica scoperchiata dal post di Gjoni. E Zoe Quinn? Nel frattempo è diventata paladina del femminismo, dei diritti delle sviluppatrici e simbolo della lotta alla misoginia nel gaming. Ironico, no? Ha pure avuto l’ok da Valve alla pubblicazione su Steam del suo gioco Depression Quest, nonostante la community su Greenlight lo avesse sonoramente bocciato.

Come se qualcuno ai piani alti avesse dimenticato lo scambio di sesso per favori professionali e pubblicità occulta. Non so se ne eravate a conoscenza ma tutto il clamore generato, i retweet e la popolarità acquisita sui social hanno fatto sì che la Quinn ottenesse una manciata di posizioni lavorative in studi di sviluppo indipendente poi andati sul lastrico (tra cui quello dell’amabile Phil Fish) e venisse addirittura assunta da DC Comics per poi portare al fallimento l’etichetta Vertigo per la sorpresa di nessuno in particolare.

In pochi ricordano che nell’ottobre del 2016 ha anche lanciato una campagna Kickstarter per il gioco “Kickstarted in the butt: a Chuck Tingle digital adventure”. I fondi ricevuti dalla community sono arrivati ad oltre 85.000 dollari, ma ad oggi del gioco non se n’è vista nemmeno l’ombra. Anzi, persino chi ci ha lavorato sostiene si tratti di una vera e propria truffa. Secondo una donna facente parte del team di sviluppo i lavori si sarebbero arenati e lo staff non avrebbe ricevuto mezza lira, con la Quinn che nel frattempo spendeva il budget in viaggi e festini. Trovate la discussione Twitter qui: http://archive.li/ptz8k.

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Sembra che Zoe Quinn possa aver truffato parecchi sostenitori del suo nuovo progetto, finanziato attraverso Kickstarter.

Più di recente la stessa Zoe ha confermato di essere disoccupata e al verde. Com’era il detto? Get woke, go broke, già. E andrebbe anche bene così, se non fosse che per questa gentaglia sparire dalla circolazione e divenire irrilevanti all’occhio pubblico non è un’opzione contemplabile. Questo anche a costo di rovinare carriere e vite altrui. Infatti, sfruttando la scia del movimento #MeToo, Zoe Quinn ha dichiarato su Twitter di aver subito abusi sessuali dal designer di Night in the Woods Alec Holowka circa 10 anni fa.

Le accuse, presentate in una serie di post sul suo profilo social, dipingono Holowka come un uomo triste e solo, che in più occasioni l’avrebbe stalkerata e molestata perché innamorato follemente di lei. Se le accuse siano vere o false non è ancora dato saperlo, di certo ci sarà un’investigazione approfondita da parte degli organi competenti. Il fatto è che, almeno a mio parere, se subisci una molestia decenni prima non vai a confessarlo su Twitter senza portare uno straccio di prova e innescando una caccia alle streghe, ma vai dalla polizia e sporgi denuncia.

Credere alle donne facenti parte del #MeToo sta diventando sempre più difficile, purtroppo, a causa di tante, troppe accuse dimostratesi infondate in tribunale. Esempi famosi sono quelli di Brett Kavanaugh, Andy Signore, Adam Venit, Lars Von Trier, Roy Price e moltissimi altri nomi del business, della politica e dello spettacolo. In un modo o nell’altro questi signori sono riusciti a riprendersi in mano la propria vita dopo aver provato di essere innocenti, ma non tutti hanno avuto la stessa fortuna.

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Alec Holowka, sviluppatore del bellissimo Night in the Woods, si è suicidato dopo le accuse di Zoe Quinn.

Notizia di ieri è infatti che Alec Holowka, accusato senza prove su Twitter da Zoe Quinn, si sia suicidato. Ciò probabilmente a seguito del licenziamento in tronco dal suo studio di sviluppo e dalla cancellazione del progetto a cui stava lavorando. Senza tenere in considerazione la valanga di insulti, minacce e altri abusi verbali giuntigli da femministe, guerrieri sociali e tutti quegli ipocriti che lottano contro il bullismo solo quando gli conviene. Da sottolineare che Holowka stesso era un guerriero sociale e nonostante tutto l’opinione pubblica lo ha crocifisso e cancellato ancor prima di verificare la sua colpevolezza.

Intanto Zoe Quinn ha disattivato il proprio account Twitter, probabilmente in preda al panico. Dubitiamo che riesca a cavarsela anche stavolta se le accuse contro Holowka dovessero rivelarsi false. E in ogni caso averle rese pubbliche in quel modo vile e plateale senza alcuna prova non le rende certo onore. Questo, però, è il mondo in cui viviamo. Un mondo in cui basta che una donna o un paio di giornalisti ti accusino di qualcosa per distruggerti la vita ancor prima di esser stato giudicato in tribunale.

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Salutiamo Alec, sperando che comunque si possa fare prima o poi chiarezza sulla questione.

È questo il mondo ipocrita in cui se ti permetti di differire dal pensiero unico dei guerrieri sociali vieni marginalizzato e definito tossico, sessista, razzista, omofobo e quant’altro. Un mondo di paura dove ormai scrittori, producer e sviluppatori rischiano il posto di lavoro e il linciaggio per una battuta o per un paio di tette nude all’interno di un videogioco. Un mondo dove i giornalisti promuovono la censura. Un mondo in cui le aziende attaccano i propri clienti per strizzare l’occhio alle minoranze che non comprano i loro prodotti. Un mondo fatto di individui che dicono di volere inclusione e diversità promuovendo invece l’esatto opposto. Un mondo in cui persino la scienza viene definita “problematica”. Un mondo senza logica, dove il ridicolo viene glorificato anziché percepito come risibile. Un mondo in cui tutti indossano una parrucca color arcobaleno e un naso rosso finto ma nessuno ride. Un mondo pericolosamente vicino a quello Orwelliano.

A voi le considerazioni, ragazzi.

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